di Roberto Montesi

Gigi Riva.

Modesto e schivo, allergico alle autocelebrazioni, provocate o indotte. E’ stata, e lo è ancora, una vita piena, da romanzo. Non ha (ancora?) dato alle stampe il libro autobiografico al quale aveva confessato di pensare anni fa, ma non è mai troppo tardi: se si è deciso a raccontare la sua storia uno riservatissimo come Dino Zoff, perché non sperare che lo faccia anche Gigi? A suo modo, senza infingimenti né cortine fumogene. Pane al pane, di corsa verso l’obiettivo, come quando giocava e puntava dritto verso la porta.

In realtà a volte, specie negli ultimi anni, si è aperto con piacere, anche su argomenti intimi o poco piacevoli. Le donne, ad esempio “Penso che abbiano apprezzato la mia riservatezza”; o l’infanzia dura, difficile, tre anni in collegio, lontano dagli affetti più cari “Ci davano da mangiare roba schifosa, e mi avevano privato della libertà”; e il rimpianto per la perdita dei genitori, ferite ancora fresche, che il tempo può lenire ma guarire mai. “Ho perso il papà a 9 anni, mia madre a 16. Quando arrivai in Sardegna ero incazzato con la vita, sembrava che il destino ce l’avesse con me. Mio padre era un grande appassionato di sport, lo ricordo conversare in piazza di ciclismo; di mia madre ricordo i sacrifici”.

Grande appassionato di musica, in modo particolare quella di Fabrizio De Andrè

Hanno provato a raccontarlo in tanti, semplici scrivani e scrittori di vaglia. E’ diventato “Rombo di Tuono” nel 1970, dopo una strepitosa partita a Milano contro l’Inter, alla testa del Cagliari scudettato. Copyright di Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano.

Un paio di giorni più tardi il difensore austriaco Hof gli spappolò la gamba, giusto per ricordargli la forza del destino. E lo scudetto, che pareva in cassaforte in Sardegna, volò via; e così pure la Coppa dei Campioni, sfumata in una amara sera al “Calderon” di Madrid. Luis Aragones, in seguito mentore del tiki-taka, segnò tre reti ad Albertosi. “Purtroppo la squadra non seppe superare lo shock del mio infortunio”.

Il Cagliari senza Gigi Riva sarebbe come il Santos senza Pelè, la Juventus trapattoniana senza Platini, il Milan di Sacchi senza Van Basten. Il suo ultimo anno, nel 1976, è coinciso con la retrocessione. Non aveva intorno la squadra di un tempo. Finché ha potuto, ha combattuto come Achille accerchiato dai Troiani. Le forze erano soverchianti, lui cadde sul campo, letteralmente. Cagliari-Milan, un grigio pomeriggio di febbraio. Uno scatto sulla linea laterale fianco a fianco con il difensore Bet, un urlo di dolore, Bet che lo guarda e ripete “Non l’ho toccato”. Era partito un tendine della coscia. The end (Ma la storia non è finita per l’infortunio, ci furono incomprensioni con il nuovo allenatore Toneatto e Gigi preferì mollare). Sipario su una storia fatta di gol iniziata negli anni ’50 nei tornei notturni estivi in riva al lago.

Gigi spopolava in una squadretta chiamata “Piccolo Brasile”. La situazione economica della famiglia non era delle più rosee. Gigi aveva solo il calcio in testa. Tifava per l’Inter, scriveva ai suoi idoli, senza ricevere il piacere di una risposta. “Per questo io non ho mai detto no ad un ragazzino che mi chiedeva un autografo”. Laveno e Legnano le prime squadre vere. Era magro come un chiodo, ma era veloce e aveva un bel tiro. Lo chiamarono nella Nazionale Juniores, per giocare contro la Spagna a Siviglia. Un viaggio passato alla storia perché dall’alto vide un’isola in mezzo. “Cos’è quella?”, “La Sardegna”. Smorfia schifata: “Non vorrei mai vivere in un posto del genere”.

L'inventore del soprannome "Rombo di Tuono", nonché leggenda del giornalismo sportivo italiano: Gianni Brera

A vederlo in Spagna c’erano gli osservatori delle principali squadre italiane.L’Inter sembrava in prima fila, ma Herrera lo bocciò. Oppure fu abilissimo il dirigente del Cagliari Andrea Arrica a precedere la società nerazzurra.

Gigi gli era stato segnalato da un suo amico lombardo che di professione faceva il vigile, ma aveva l’occhio lungo per individuare i talenti sopraffini. Arrica della sua competenza si fidava ciecamente e non ebbe mai a pentirsene. Anche se il prezzo, ritenuto esorbitante, 35 milioni e 500.000, dovette mettersi contro l’intero consiglio direttivo. La spuntò lui, naturalmente. Così come successivamente si impose nel contenzioso con l’ex socio Rocca, permettendo l’acquisto della Società da parte della SIR e quindi di evitare la cessione di Riva alle squadre metropolitane.

Perché Gigi era già diventato Giggirriva, l’attaccante più temuto del campionato; e fu lui la prima pietra sulla quale venne edificata la squadra dello scudetto. Anni felici, di carovane dei tifosi provenienti da tutta la Sardegna, pranzi a base di malloreddus e porceddu innaffiati con Cannonau consumati allo stadio. E gol, tanti gol. Alcuni meravigliosi, altri storici, altri ancora più “normali”. In cima alla lista la famosa rovesciata di Vicenza, un gesto tecnico e acrobatico da lasciare a bocca aperta.

Lo apprezzavano scrittori e intellettuali, cantanti e cineasti. Disse di no a Zeffirelli, che l’aveva scelto come interprete del suo San Francesco. Aveva stretto una bell’amicizia con Fabrizio De Andrè. “Mettevo la sua musica in pullman beccandomi gli insulti dei compagni. Passai una serata da lui, a Genova. Inizialmente non sapevamo cosa dirci, poi ci aprimmo. Gli regalai la mia maglia, lui mi diede una sua chitarra”.

Come ha confessato in una intervista a Nanni Boi, il difensore più scorbutico è stato Bicchierai del Catania (“Mi dava la mano per farmi rialzare e mi metteva le dita negli occhi”). Allenatori e compagni indimenticabili, aneddoti sentiti mille volte come il refrain della canzone del cuore che si ascolterebbe all’infinito. Scopigno, il filosofo, a Boninsegna che gli comunicò il grave infortunio di Gigi contro il Portogallo, rispose “Meglio a lui che a me”; Silvestri, il primo mèntore, che gli vincolò lo stipendio per “impedire al ragazzo di fare sciocchezze”; Fabbri, colui da ct azzurro che l’aveva escluso dai Mondiali inglesi andando incontro alla Corea. In avanti fece coppia con Cappellaro e Boninsegna, quest’ultimo descritto per anni come un nemico, versione sempre smentita dagli interessati (“Chi porta la mia stessa maglia non è mai un nemico”, ha detto Gigi). Il partner perfetto l’ha trovato in Bobo Gori, più consono ad assecondare il suo stile di gioco.

Gori e Riva festeggiano lo Scudetto

Lo scudetto del ‘70 ha unito la Sardegna all’Italia, secondo Brera. Prima eravamo pecorai, banditi. Nessuno veniva a passare le vacanze qui, la Costa Smeralda non esisteva. Si facevano film che con l’occhio di oggi sarebbero considerato palesemente razzisti. Ti sbatto in Sardegna, minacciavano i grossi papaveri nei confronti dei loro subordinati colpevoli di qualche pasticcio. Cambiò tutto e l’isola diventò un paradiso per turisti. La squadra rossoblù conobbe un declino precoce. La crisi della SIR non consentì di rinfrescare la rosa con elementi all’altezza degli eroi invecchiati. Ci volle l’ingresso di Gigi nella stanza dei bottoni per ricostruire una  squadra, quella di Corti-Lamagni-Longobucco, capace di dare spettacolo in tutti i campi d’Italia. Poi il fallimento, con Gigi a caricarsi il fardello sulle spalle, a governare il momento più buio, ad arrovellarsi per cercare una via di uscita. Sino all’intervento della famiglia Orrù, che rilanciò la Società.

Gigi ripartì con la sua terza vita, team manager della Nazionale. Ha tenuto a battesimo intere generazioni di giocatori, da Vialli a Chiellini, passando per i fenomeni del 2006. Un titolo Mondiale, un altro perso ai rigori, un terzo, giocato in casa, buttato via in semifinale; un campionato europeo volatilizzato in pieno recupero, un altro concluso al 3° posto con molti rimpianti.

Ma per quanto grandi siano i suoi meriti da dirigente, nella testa della gente rimane altro. I suoi gol, di potenza pura, fatti di scatti intensi e tiri bomba. E la sua personalità fuori dal campo. Pochi hanno saputo unire l’Italia del calcio come ha fatto lui con una percentuale di consensi bulgara. Forse Roberto Baggio, forse, diciamo. Sarà perché ha “dato relativamente fastidio”, giocando tutta la carriera nel Cagliari; oppure perché era dai tempi di Piola che non si vedeva uno così e che la Nazionale, all’epoca la squadra di tutti gli italiani al di fuori delle basse rivalità dei Comuni, non vinceva più niente dagli anni ‘30. Campione d’Europa nel 1968, vice iridato due anni dopo in Messico. Nel ’68, Valcareggi ricorse a lui, che  non era al massimo, per il replay della finale contro la Jugoslavia. Suo il gol che cacciò i fantasmi, di Anastasi il raddoppio. Finì con la fiaccolata sugli spalti dell’Olimpico e lui, che non ce la faceva più, rimase in campo stringendo i denti sino al termine. In Messico, agli stenti iniziali dovuti al difficoltoso adattamento all’altura, seguirono in rapida successione: la doppietta sui padroni di casa nei quarti di finale, la zampata nel mitico 4-3 contro la Germania Ovest e la sconfitta in finale contro il Brasile di Pelè. Germania ’74 il canto del cigno: a nulla servirono le preghiere di Fulvio Bernardini perché Gigi ci ripensasse e tornasse in azzurro. Meglio chiuderla qui, con 35 gol in 42 partite, tuttora record imbattuto; e pazienza se il fuoriclasse degli anni ’30 Meazza non prese bene il sorpasso in cima alla classifica dei gol segnati.

Di abbandonare la Sardegna non ne ha mai voluto sapere. Veramente non voleva metterci piede: solo la sorella Fausta lo convinse ad accettare la richiesta del Cagliari e dall’albergo scambiò le luci della Saras con l’Africa, prendendosi un calcio nel sedere dall’allenatore del Legnano Lupi che l’accompagnava. La lista dei corteggiatori era lunga, li ha lasciati senza speranze. E meno male che all’epoca non era abitudine recarsi all’estero. Nel 1973, la Juventus tentò un’ultima offensiva per portarlo a Torino: Arrica lasciò Boniperti con un palmo di naso. “Non c’era prezzo per vendere Riva”, commentò anni dopo. Gigi era diventato uno di noi, più sardo di un sardo. “Provate a parlare male della Sardegna in sua presenza, vi farà nero”, dice ridendo Beppe Tomasini. Un giorno si è adontato, gli avevano detto che non avrebbe potuto concorrere alla carica di governatore della Sardegna, non essendo nato in Sardegna. “Non sono sardo, io?”.

Qui ha trovato la sua casa, ha messo su famiglia. Le nuove generazioni, che pure non hanno avuto il piacere di vederlo giocare, continuano ad amarlo attraverso il racconto dei nonni e dei padri.

La Sardegna attendeva un condottiero per svegliarla dal lungo sonno, è arrivato Gigi Riva da Leggiuno, in provincia di Varese. Nato il 7 novembre 1944, segno zodiacale Scorpione. Segni particolari: uno così non si era mai visto e forse.. non si vedrà mai più.